Siamo stati a trovare Marina, il tempo è volato
Trascorrere più di 2 ore all’interno di un percorso di mostra non è una cosa scontata e quando questo avviene ci si rende conto che il significato di ciò che si stava guardando doveva essere pregnante e persistente, come un profumo che ci resta addosso, “lingering” direbbero gli inglesi. La prima grande retrospettiva dedicata a Marina Abramovic “The Cleaner” al Palazzo Strozzi di Firenze è sicuramente un racconto denso e ben strutturato dell’enorme corpus del lavoro dell’artista serba, considerata a ben ragione come colei che è stata in grado di portare la performance nell’Olimpo dei linguaggi artistici, al pari di tutti gli altri.
Il corpo al posto del vestito
Marina Abramovic ha posto se stessa al centro della sua espressione artistica attraverso un strumento ben preciso e visibile: il proprio corpo. Il suo corpo è stato per lei un vero e proprio vestito da indossare e con cui comunicare se stessa nell’agone civile, sociale e politico. E’ il suo corpo ad essere messo al centro di una stella di David infuocata nella serie di performance Rhythm eseguite tra il 1973 e il 1974 tra la Jugoslavia e l’Italia. E’ il suo corpo ad essere esposto ad ogni possibile gesto da parte del pubblico nella performance Rhythm 0 del 1974 presso lo Studio Morra di Napoli. E’ il suo corpo ad essere sfinito dalle continue urla in Freeing the voice a Belgrado nel 1975.
Art must be beautiful, anzi no.
Per l’Abramovic l’arte deve essere politica, rifiuta un’arte puramente estetica. Dichiara: “La Jugoslavia mi aveva stufato con il presupposto estetico che l’arte dovesse essere bella. Gli amici di famiglia possedevano quadri in tono con tappeti e mobili, ma ridurre l’arte a decorazione era per me una solenne stronzata. Nell’arte a me interessava solo il contenuto. Mi ero convinta che l’arte dovesse essere disturbante, dovesse porre domande, dovesse predire il futuro“.
Black + White
La dualità di Marina la incontriamo nei lavori con Ulay. Artista olandese che diventa la sua metà, una relazione durata 12 anni, di cui i primi 9 trascorsi in una totale unione di menti e di spiriti, fisica e psicologica. Marina + Ulay decidono di vivere in un minuscolo camion (esposto in mostra) e di girare il mondo portando in giro la propria arte. Gli abiti recepiscono questa dualità, con i colori opposti per eccellenza: Bianco e Nero, come nella performance Rest Energy del 1980. I due artisti sono in piedi contrapposti con un arco ed una freccia in tensione che potrebbe trafiggere un momento all’altro il cuore di Marina.
La teatralità degli abiti
Negli anni successivi è la teatralità a prendersi tutto il palcoscenico. Gli abiti di Marina si fanno lunghi, imponenti, importanti nei loro volumi e forme. Sono quelli di The Kitchen e soprattutto di The artist is present diventato un classico della Performance Art. “La performance più radicale della mia vita”, come ha dichiarato la stessa Marina, che è rimasta per 7 ore al giorno per 3 mesi seduta a fissare lo spettatore che decideva di sedersi di fronte a lei. Con lui iniziava un profondo dialogo interiore fissandolo negli occhi. Una performance che ha cambiato profondamente l’artista spingendola ad esplorare altri modi di comunicare.
Marina Abramovic
The Cleaner
Palazzo Strozzi, Firenze
Fino al 20 gennaio 2019