L’Arte è anche protesta. Un episodio alquanto emblematico di questa affermazione ha per protagonista l’artista Rothko quando, invitato da uno dei ristorante più in voga di New York ad esporre le sue opere, all’ultimo minuto si rifiuta per protestare contro gli inutili sprechi dei ricchi e decide di donare i suoi quadri alla Tate di Londra.
L’artista Elena Bellantoni si immerge in quel momento e scrive “una storia nella storia” immaginando una giornalista che si trova di fronte al fatto compiuto e analizza i sentimenti di Rothko. Gustiamoci questo racconto inedito e trasferiamoci idealmente nella New York effervescente degli anni ’60, quando moda, design e arte stavano disegnando i cambiamenti di un’epoca.
Le quattro stagioni – Racconto inedito di Elena Bellantoni
Pensavo di essere arrivata in ritardo e invece no, le porte del ristorante non erano ancora chiuse, nonostante il fiato corto entrai. Decisi di ordinare qualcosa e chiesi gentilmente al cameriere vestito di tutto punto di portarmi la lista delle vivande e perché no? la carta dei vini! sospirai.
Ero seduta ad un bellissimo tavolo, di fronte ad una vetrata molto grande, mi sentivo davvero come ad una festa a sorpresa, dove il festeggiato sta per arrivare.
Mi trovavo sulla novantanovesima – che per inciso corrispondevano agli anni di mia nonna – una lunga strada di New York esattamente tra la Park e Lexington Avenues.
Allungai l’occhio verso l’uomo vestito da pinguino cercando di intercettare lui e uno dei numerosi menu a disposizione: Pool lunch, Grill lunch, Bar lunch, Grill lunch, Pool dinner, Dessert, Private dinner, Private lunch.
Ma dove ero finita?
Mi avevano detto che quello era il tempio del cibo, che avrei assaporato l’estasi degli occhi e del palato, dovevo forse fare un piccolo sforzo di concentrazione e andare al punto della questione:
“mangiare del buon cibo non è forse come assaporare un’opera d’arte? Questa ultima poi non dovrebbe nutrire il nostro spirito, saziarci gli occhi, alimentare l’animo?” mi chiedevo anche se la gola non fosse semplicemente un passaggio tra l’apparato respiratorio e quello gastrointestinale o altro, di lì a poco avrei trovato delle risposte…
Ero ancora concentrata sui primi piatti di portata, quando un capannello di persone fece capolino proprio vicino al mio tavolo. A questo punto, forse per deformazione professionale, decisi di allungare anche l’orecchio; tra grasse risate e commenti captai qualche indizio importante. Si trattava di un gruppo di repubblicani tutti in giubbotto – quello a doppio petto basso, modello militare – in stile Eisenhower ed, infatti, proprio di lui parlavano! Iniziarono a mangiare ininterrottamente, arrivarono portate di tutti i tipi, mi sentivo come al cinematografo: incantata osservavo questo spettacolo di cibo e parole sempre più corpulente che riempivano la bocca dei commensali, cominciai a non sentirmi bene, mi alzai.
Andai a cercare il bagno delle Signore, mi tornavano in mente le parole che avevo letto sul numero 10 della rivista “Evergreen Review” a proposito del ristorante: “Il The Four Season, in linea di massima, è l’Arte. L’arte vi colpisce in viso non appena entrate nella hall, a est di Park Avenue quindi sul lato della cinquantaduesima strada. Davanti a noi, una scultura di Hadiju, intitolata La testa bianca, posta su un piedistallo. La toilette per Signori e Signore sono dei veri e propri palazzi: i primi, di marmo bardiglio fiorité ed ebano del Macassar, gli altri in Rose portas, legno di rosa, e Fortuna dorato, con coiffeuse teatrali circondate da lampadine elettriche. Ci sono mensole di marmo con portacenere ai lati di ogni scanno…”. Mi asciugai la faccia con un telo bianco avorio di lino delle fiandre, continuavo ad osservare e riflettere sul Seagram Buliding l’edificio in cui si trovava il ristorante, quindi io. Mies van der Rohe l’aveva concepito tutto in bronzo e progettato in ogni minimo particolare, con un’estrema eleganza per i dettagli, era un posto assurdo: “l’ennesima sala da pranzo per ricchi sfondati” dissi allo specchio.
Il sipario era dunque aperto: mi trovavo lì perché avevo una missione da compiere.
Tornai al mio posto e notai che i repubblicani si erano trasferiti nella sala cocktail, era rimasta una lunga tavolata desolata e piena di carcasse di animali morti; tovaglioli stropicciati e unti incorniciavano il tutto, mentre bicchieri di vino rovesciati formavano dei piccoli laghi rossi che avevano intriso la tovaglia e stavano lentamente cambiando sfumatura. Sembrava una scena apocalittica, mi si era chiuso lo stomaco.
Cercai riparo accavallando le gambe e stringendo le mani quasi come se stessi in preghiera, ma era il posto sbagliato per questo tipo di raccoglimento. Ero spacciata.
Sabato 3 Gennaio 1959 mi ero recata al ristorante The Four Season correndo dalla redazione del giornale dove lavoravo. Mi avevano chiesto la mia prima recensione su una mostra che avrei tanto voluto vedere, mi avevano dato carta bianca: quindi da brava redattrice mi ero recata nel famoso ristorante Le Quattro Stagioni per tempo, per avere un’idea in anticipo su dove Marcus Rothkowiz avrebbe tenuto la sua prossima mostra, mi era arrivata una soffiata da un amico cronista.
Rothko inizialmente aveva accettato l’incarico per il The Four Season – si legge in una sua lettera – come una sfida, armato di intenzioni del tutto malevole: “Spero tanto di riuscire a dipingere qualcosa che guasti l’appetito d’ogni figlio di puttana che entrerà in quella sala per mangiare”.
Durante l’ultima cena Gesú annuncia che verrà tradito da uno dei suoi Apostoli, il grande tradimento per Mark Rothko è stato fatto al cospetto della sua Arte, di natura quasi mistica e contemplativa, che non lascia spazio al caos ma inonda di silenzio.
L’agnello sacrificale, il vino scorrerà presto di sulla tela bianca: Mark Rothko si suicida a New York la mattina del 25 Febbraio del 1970 tagliandosi le vene dei polsi.